La notte del 2 febbraio del 1959 avvenne una delle morti più misteriose e tutt'oggi inspiegabili al mondo, dove persero la vita nove escursionisti, capeggiati da Igor Djatlov, dal quale prese nome il passo in cui si trovavano accampati quando avvenne il tutto.
Il passo in questione si trova nella zona settentrionale dei monti Urali e si trovava lungo la rotta programmata dal gruppo (otto uomini e due donne, Djatlov compreso) per l'attraversamento di questi ultimi. Dieci persone in totale, partite in treno con destinazione Ivdel, giunte sul posto il 25 gennaio, ma uno di loro, Jurij Judin, in seguito a una indisposizione, dovette abbandonare il gruppo prima di arrivare a Otorten, la loro prossima tappa, riducendolo in questo modo a nove persone.
Arrivati sul bordo di un altopiano e preparatisi per la salita, il 1° febbraio iniziarono la percorrenza del passo, in una condizione climatica talmente ostile che, avendogli fatto perdere l'orientamento, li costrinse ad accamparsi di emergenza sul pendio della montagna in attesa che le condizioni si assestassero e poter così continuare la loro marcia.
Prima di partire, in maniera cautelativa, il gruppo aveva preso accordi con la loro associazione sportiva che se entro il 12 febbraio non fossero rientrati sarebbero iniziate le ricerche per recuperarli. Nonostante tale accordo, però, i primi soccorso non partirono prima del 20 febbraio, poiché si pensava che un ritardo di una settimana fosse comunque fisiologico quando si trattava di spedizioni del genere.
Dopo sei giorni, con la collaborazione di polizia ed esercito, grazie all'utilizzo di elicotteri e mezzi da neve, la tenda fu ritrovata sul
Cholat Sjachyl in pessime condizioni, con una serie di impronte che da essa proseguivano per circa cinquecento metri in direzione dei boschi.
I primi due corpo furono ritrovati, scalzi e vestiti solo con la loro biancheria intima, vicino ai resti di un fuoco sotto a un grande cedro, erano i corpi di Juri Krivoniscenko e Jurij Dorosenko, mentre tra questi ultimi e il campo furono ritrovati altri tre corpi, quello di Djatlov, di Zina Kolmogorova e Rustem Slobodin, a circa centocinquanta metri l'uno dall'altro e congelati in una posizione che suggeriva il loro intento di ritornare alla tenda.
Per il ritrovamento dei restanti quattro escursionisti (Ljudmila Dubinina, Nikolaj Vasil'evic, Aleksandr Zolotarev e Aleksandr Kolevatov) si dovette attendere il disgelo, il 4 maggio infatti furono trovati sepolti sotto un metro e mezzo di neve in una gola scavata da un torrente, a circa mezzo chilometro di distanza dal cedro accanto il quale erano stati ritrovati i primi due corpi.
Già dal ritrovamento dei primi cinque corpi erano state avviate le indagini per determinare le cause dei decessi. Da una prima ricostruzione si era evidenziato che dall'interno della tenda, i ragazzi erano scappati fuori, seminudi e in preda al panico, spinti da un terrore che li aveva disorientati. I loro corpi non presentavano alcuna lesione (a parte una piccola lesione cranica sul copro di Slobotin) e quindi la loro morte era stata causata, presumibilmente, da ipotermia.
Fin qui era tutto abbastanza lineare, se non fosse che le scoperte più scioccanti furono fatte esaminando gli altri quattro corpi ritrovati nella gola diversi mesi dopo. Esternamente, infatti, i quattro cadaveri non presentavano alcuna ferita esterna, ma l'autopsia rivelò, anche per essi, una frattura cranica oltre alla cassa toracica quasi del tutto disintegrata, una situazione che fu paragonata, non trovando altri metri di paragone, all'urto con un mezzo pesante o una vettura ad alta velocità. Ljudmila, inoltre, era stata ritrovata priva della lingua, degli occhi e di parte della mascella.
Si suppose che ad averli assaliti fosse stata la tribù dei Mansi, colpevoli di aver loro invaso il territorio, ma le uniche impronte ritrovate erano quelle degli escursionisti e l'assenza di ferite esterne non combaciava con tale teoria. Anche per quanto riguarda il fatto che molti di loro siano stati ritrovati senza vestiti addosso, o quasi, si provò a dare una spiegazione: Tale comportamento sarebbe lo
spogliamento paradossale, in cui ci si spoglierebbe con l'illusione che, l'avvicinarsi all'ipotermia, provochi invece un innalzamento della temperatura corporea.
Investigatori, medici e ricercatori, alla fine, furono tutti convinti del fatto che, comunque fossero andate le cose, a ucciderli era stata una "irresistibile forza sconosciuta".
I dubbi su cosa sia veramente successo nel passo di Djatlov, comunque, restano ancora. Non si trovò una valida spiegazione, per esempio, agli alti valori di radioattività rilevati dagli abiti degli escursionisti, o alla strana abbronzatura di tutti i componenti, notata da un dodicenne al loro funerale (e divenuto, negli anni, il capo della Fondazione Djatlov), come se fossero stati esposti per ore alla lampada abbronzante.
Un gruppo di escursionisti, distanti circa cinquanta chilometri dal passo, quella stessa notte avvistarono delle "sfere luminose" in cielo, ma in seguito si scoprì che le luci da loro viste erano in realtà missili balistici.
Un'altra teoria, alimentata dal ritrovamento di rottami metallici nelle vicinanze, era che l'esercito avesse effettuato operazioni segrete in quella zona e che quindi era interessato a insabbiare il tutto.
Comunque siano andate le cose, ciò che avvenne quella notte fece parlare per anni la stampa e le riviste specializzate, fu realizzato un documentario nel 2000 da una rete locale (Il mistero del passo Djatlov) e fu edito l'omonimo libro della scrittrice Anna Matveeva.
nel 2013 uscì il film
Il passo del diavolo e nel 2015 un videogioco ispirato a quei tremendi fatti,
Kholat.
Nel 2019 il governo russo, non del tutto convinto delle motivazioni addotte, decise di riaprire il caso, precedentemente chiuso nel 1959 per assenza di colpevoli.